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La nuova modifica dei contratti a termine passa per le relazioni sindacali

Anche il Governo Meloni, come molti dei precedenti, ha ritenuto di inserire all’interno del suo Decreto lavoro (DECRETO-LEGGE 4 maggio 2023, n. 48) entrato in vigore il 5 maggio, un intervento relativo alla contrattazione di durata. Siamo da poco usciti dalla legislazione emergenziale da Covid-19 che ha portato il Governo Conte a rivedere le rigidità del cosiddetto decreto “Dignità” sull’immutabilità delle causali che ne limitavano il ricorso, proprio per salvaguardare l’occupazione in un momento molto difficile per il mondo del lavoro. Alla caduta del muro ideologico (durata poco) su questo strumento, non è però seguita una immediata presa d’atto sulla necessità di modificare la legge tanto cara all’ex Ministro Di Maio ed abbiamo quindi dovuto aspettare l’intervento del Ministro Calderone per dare una parziale scossa in questo senso.

Le limitazioni fino al 4 maggio

L’articolo 19 è seguenti del D.lgs. 81/2015 (Testo unico sui contratti di lavoro conseguente al Jobs Act) come modificato dal D.l. 87/2018 (c.d. Decreto Dignità), convertito dalla legge n. 96/2018 prima della recente modifica prevedeva la possibilità di ricorrere al contratto a termine limitandone la stipula senza obbligo di causali ad una durata non superiore ai 12 mesi.  In caso di rinnovo o proroga che prevedono il superamento di tale limite (e per un massimo di 24 mesi) era d’obbligo inserire una tra le seguenti “condizioni”: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. Si trattava di condizioni molto stringenti (per non dire impossibili), che avevano così ridotto a dodici mesi la portata dell’utilizzabilità dello strumento già oggetto di attenzione per opera della Riforma Fornero e liberalizzato dal Decreto Poletti, prima, e dal Jobs Act, poi.  

La normativa emergenziale

Con la legge n. 27 del 24 aprile 2020  che ha convertito il primo decreto legge conseguente alla pandemia (Cura Italia) si era introdotto all’interno del d.lgs. 81/2015 l’articolo 19-bis, che consentiva di prorogare e rinnovare i contratti a termine, ivi inclusi i contratti di somministrazione, durante l’emergenza, senza dover rispettare il cosiddetto “stop and go” tra un contratto a termine ed un altro e ciò anche in concomitanza con l’utilizzo degli ammortizzatori sociali denominati appunto “Covid-19”. Ma è con il decreto “Rilancio” (D.L. n. 34 del 19 maggio 2020) che si interviene per la prima volta sulle causali prevedendo la possibilità di rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 (scadenza inderogabile) i contratti di lavoro a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020. Il decreto “Agosto” porterà invece questo termine fino al 31 dicembre 2020, non come per la precedente scadenza, ma quale termine ultimo entro il quale poter effettuare formalmente l’atto di rinnovo o proroga del contratto. Con il Decreto-legge “Sostegni-bis” (D.L. n. 73 del 2021 convertito con modificazioni dalla Legge n. 106 del 2021) il termine viene invece portato fino al 30 settembre 2022 ma viene introdotta anche una nuova causale rappresentata da “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’art. 51” del Decreto Legislativo n. 81 del 2015 (contratti collettivi, anche aziendali), in modo da poter demandare alle parti sociali la possibilità di creare delle causali ad hoc.

Spazio agli accordi

Con l’articolo 24 del decreto Calderone, l’esecutivo ripropone la filosofia di quest’ultima causale e affida, in maniera preponderante, alla contrattazione collettiva di primo e secondo livello il compito di definire i casi per i quali è possibile stipulare rinnovi o proroghe dei rapporti a termine dopo i primi 12 mesi. In mancanza di intese collettive, le parti del contratto (datori e lavoratori) possono accordarsi in autonomia.

Con le modifiche apportate dal decreto (nuovo art. 19, comma 1, d.lgs. 81/2015), le causali sono state così riscritte e, dal 5 maggio 2023, è possibile stipulare contratti di durata superiore a 12 mesi, nonché effettuare proroghe e rinnovi oltre questo limite, sempre fermo restando il limite massimo di 24 mesi, sia “in sostituzione di altri lavoratori”, che “nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51” (contratti collettivi, anche aziendali). In assenza di disposizioni della contrattazione collettiva, e comunque entro il limite temporale massimo del 30 aprile 2024, datore di lavoro e lavoratore possono individuare (con accordo individuale) “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva” che consentono di procedere al prolungamento del rapporto.

I dubbi

Dalla lettura della norma sembra non esserci spazio per l’autonomia individuale in presenza di una disciplina collettiva, ma come sempre, purtroppo, dovrà essere una circolare o la conversione in legge del decreto a chiarire l’ambito di discrezionalità dell’una e dell’altra. Un primo dubbio è se i contratti collettivi cui rinvia il decreto sono solo quelli sottoscritti dopo l’entrata in vigore della riforma (quindi, dal 5 maggio scorso in poi) oppure siano validi anche gli accordi siglati in precedenza. Si ritiene che, in mancanza di un riferimento specifico all’interno della norma, valgano anche le intese preesistenti (se esistenti). Un secondo dubbio riguarda la possibilità per le parti (datore di lavoro e lavoratore) di poter prevedere nel contratto individuale una causale nel caso in cui il contratto collettivo dovesse disciplinare causali solo per la parte del contratto a termine e non anche nella somministrazione di manodopera. In questo caso andrà chiarito se ciò costituisca un via libera alla possibilità per le parti di stipulare o meno l’accordo individuale per la fattispecie non contrattualizzata. Un ulteriore dubbio riguarda la possibilità per le parti di declinare aziendalmente e più specificatamente le causali (sicuramente generiche) del contratto collettivo. Va ricordata, a tale riguarda, la copiosa giurisprudenza formatasi nel primo decennio degli anni duemila sulla mancanza di tenuta giuridica di causali considerate dalla magistratura troppo generiche. Ma il dubbio principale è riferibile al caso in cui entro la scadenza del 30 aprile 2024 non intervenga alcuna contrattazione di primo o secondo livello sulle causali. I chiarimenti dell’esecutivo dovranno essere tempestivi e specificare l’ambito di autonomia di datore e lavoratore sia in presenza di causali da contrattazione collettiva che in loro assenza.

Il cavallo di battaglia 

Una presa di posizione sulla precarietà non si nega a nessuno ed è così che anche il Governatore (uscente) Visco la individua (all’interno di una relazione economica, peraltro) quale unica vera piaga che affligge i nostri giovani. A nostro avviso, invece, la convivenza prima del matrimonio fa parte oramai del nostro modo di vivere quotidiano, sia nelle relazioni interpersonali come nel mondo del lavoro. Il decreto Calderone, in fondo, non liberalizza lo strumento ed i limiti quantitativi rispetto ai contratti a tempo indeterminato, ad esempio, sono rimasti immutati. Continuare ad indicare la precarietà come il male assoluto non risolverà i problemi di un mercato del lavoro che nel post pandemia è mutato radicalmente. Farne bandiera ideologica non risolverà il problema della “Great Resignation (grandi dimissioni), del calo della natalità e quindi della carenza di manodopera, dell’abbandono scolastico, di fenomeni come la YOLO Economy (you only live ones = si vive una volta sola), o del “quiet quitting”, fenomeno che si sta diffondendo tra le giovani generazioni in risposta all’ormai vecchio mito dello stakanovismo, dove il disimpegno dal lavoro sembra essere diventato uno strumento di difesa rispetto agli eventi prima pandemici, poi bellici ed ora metereologici, che ci travolgono e che riducono la visibilità sul nostro futuro.