IL LICENZIAMENTO IN REGIME DI TUTELE CRESCENTI

Tra i quesiti referendari dell’8 e 9 giugno spiccava quello relativo all’abrogazione del contratto di lavoro in regime di tutele crescenti per un ritorno al precedente regime. Una delle norme più “chiacchierate” della riforma del mondo del lavoro denominata “Jobs act”, voluta nel 2015 dall’allora Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi.
La fonte normativa
Il D.Lgs. n. 23/2015 (emanato in attuazione della L. 10.12. 2014, n. 183) ha apportato rilevanti modifiche in tema di licenziamento, introducendo un nuovo regime sanzionatorio applicabile a tutti i lavoratori, esclusi i dirigenti, assunti a decorrere dal 7 marzo 2025.
Viene introdotto nell’ordinamento per i dipendenti di datori con più di 15 dipendenti assunti da quella data con contratto di lavoro a tempo indeterminato nel caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo (soggettivo o oggettivo) la sanzione di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio (di due mesi per ogni anno) così limitando il diritto alla reintegrazione nel caso di licenziamenti discriminatori, nulli orali o per insussistenza del fatto materiale contestato in sede disciplinare. Il regime sanzionatorio a tutele crescenti è caratterizzato da una differente tutela avverso i licenziamenti illegittimi rispetto a quella prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/70) applicabile in base alla legge 92/2012 (Legge Fornero), le cui disposizioni continuano ad applicarsi ai lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015. E’ stato, quindi, introdotto un doppio binario tra neoassunti e lavoratori già occupati, in quanto le nuove norme si applicano a tutti i lavoratori (operai, impiegati e quadri), assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, mentre ai lavoratori assunti in precedenza continuano ad applicarsi il regime sanzionatorio precedente.
Le differenze
Rimane, in ogni caso, immutata la distinzione tra tutela applicabile ai datori con più di 15 dipendenti e tutela applicabile fino a 15 dipendenti. Volendoci concentrare sulla prima tipologia: per gli assunti prima del 7 marzo 2015 il regime sanzionatorio dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (l. n. 300/1970), garantisce la conservazione del posto in tutti i casi di licenziamento inefficace, in assenza di giusta causa o di giustificato motivo e di nullità, con la possibilità per il lavoratore di chiedere, quindi, la reintegrazione o un’indennità sostitutiva della reintegrazione pari a 15 mensilità, oltre alle retribuzioni perse dal giorno del licenziamento a quello della sentenza, con un minimo di 5 mensilità.
Per i casi in cui il giudice non ritiene di applicare la reintegrazione, il sistema risarcitorio prevede un’indennità compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità di retribuzione, a seconda dell’anzianità di servizio, del comportamento delle parti e delle dimensioni dell’impresa (con valutazione discrezionale del giudice).
Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, come detto, è prevista la reintegrazione solo nei casi di licenziamento discriminatorio ritorsivo o comunque nullo nonché in ipotesi di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Per i casi in cui è previsto, invece, il risarcimento, la quantificazione è (o meglio avrebbe dovuto come si dirà) graduata in base all’anzianità di servizio, con una previsione che inizialmente andava da un minimo di 3 e un massimo di 24 mensilità di retribuzione. Con il Decreto Dignità (DL 87/2018) i limiti minimi e massimi dell’indennità risarcitoria sono stati ampliati rispettivamente a 6 e 36 mensilità con una progressione di due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio.
L’intervento della Consulta
La volontà del legislatore nell’introdurre il regime a tutele crescenti era di sottrarre alla discrezionalità dei giudici il momento della determinazione della misura concreta della indennità, sostituendola con un meccanismo di calcolo aritmetico legato alla anzianità di servizio del lavoratore. La Corte costituzionale però, a partire dalla sentenza n. 194/2018, ha dichiarato incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità basato esclusivamente sull’anzianità di servizio. Secondo la Corte, questo criterio contrasta con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, non fornendo un adeguato ristoro al lavoratore né una sufficiente dissuasione per l’azienda dal licenziare ingiustamente. Il giudice deve, pertanto, considerare anche altri fattori, come il numero dei dipendenti, le dimensioni dell’attività economica e il comportamento delle parti. Ad ogni modo il criterio dell’anzianità di servizio continua a mantenere una funzione centrale, seppure mitigato dalla concorrenza con gli altri fattori, con i limiti minimo e massimo previsti dalla legge non investiti dalla declaratoria di incostituzionalità. Pertanto il giudice potrà effettuare la propria valutazione all’interno di tali “paletti” normativi.
Il depotenziamento della norma
Nel tempo e recentemente con due sentenze, la consulta ha allargato il campo della reintegrazione sul posto di lavoro in regime di tutele crescenti con la sentenza n. 22/2024 dichiarando l’illegittimità dell’articolo 2, c. 1, del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui limitava la reintegrazione ai soli casi di nullità “espressamente previsti dalla legge”. La reintegrazione è ora riconosciuta in tutti i casi di nullità del licenziamento, anche se non espressamente previsti dalla legge, ma riconducibili ai principi generali dell’ordinamento. Con la sentenza n. 128/2024 l’estensione della tutela reintegratoria è stata ampliata ai casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, stabilendo che la tutela reintegratoria attenuata deve applicarsi anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui venga accertata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale alla base del licenziamento.
Un referendum anacronistico
Già il legislatore del 2012 aveva riservato la tutela della reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimità è conseguenza di una violazione, in senso lato, “più grave”, prevedendo per gli altri una compensazione indennitaria, introducendo un criterio di graduazione e di differenziazione che aveva modificato radicalmente la logica precedente della reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento illegittimo nelle realtà occupazionali non piccole. La nuova disciplina delle tutele crescenti, oltretutto, non ha introdotto novità per quanto riguarda le tutele applicabili in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale: in tali ipotesi, a tutti i lavoratori, indipendentemente dalle dimensioni del datore di lavoro, è riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltreché il diritto a percepire un’indennità risarcitoria corrispondente alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento al giorno di effettiva reintegrazione. Se è dunque chiaro che lo spirito delle norme citate e delle stesse decisioni della Consulta si basa sull’esigenza di introdurre una diversificazione di sanzione a seconda della tipologia di invalidità del licenziamento risulta difficile condividere la scelta di reintrodurre un regime nel quale ogni vizio anche di natura meramente formale comporta la reintegra, risultato che il referendum vorrebbe conseguire.