AMBIENTE STRESSOGENO E RISARCIMENTO DEL DANNO

Il termine mobbing proviene dal verbo inglese “to mob”, che si traduce in italiano come “fare ressa intorno a, accalcarsi o affollarsi attorno a, attorniare”, oppure “attaccare, assalire” riferendosi a un gruppo di persone. Si tratta di comportamenti di individui impegnati in azioni mirate a colpire un bersaglio specifico. In giurisprudenza, il termine mobbing ha identificato un insieme di condotte vessatorie, reiterate e durature, sia individuali che collettive, che, se rivolte nei confronti di un lavoratore da parte di superiori gerarchici è denominato anche “bossing” ed ha l’intento di estromettere il soggetto dall’ambiente lavorativo, quando invece è attuato da parte di colleghi, il fine è quello di isolare ed estraniare il soggetto dal contesto lavorativo comune e in questo caso si parla di mobbing orizzontale.
La Corte costituzionale
La Corte costituzionale con la sentenza 10-19 dicembre 2003, n. 359, ha delineato un preciso quadro giuridico del fenomeno definendolo quale “complesso” e “consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l’esistenza di uno o più soggetti attivi cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali comportamenti sia destinatario e vittima”.
Secondo la Corte si tratta di condotte commissive ma anche semplicemente omissive che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri, sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, ma che acquisiscono, in ogni caso, rilievo quali elementi caratterizzanti della complessiva condotta che ha lo scopo di persecuzione e di emarginazione del soggetto.
Le conseguenze
Si tratta di azioni che possono portare l’insorgenza nel destinatario di disturbi di vario tipo coinvolgendo la sfera psicologica, fisica, comportamentale, sociale e professionale, ad esempio tra quelli con le conseguenze più serie: la sindrome da stress postraumatico, ansia generalizzata e attacchi di panico, ma anche disturbi del sonno, malattie cardiovascolari, modificazioni del comportamento alimentare o abuso di alcol o farmaci. La giurisprudenza riconduce le varie fattispecie di mobbing alla previsione dell’art. 2087 c.c. che prescrive un obbligo in capo al datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Si tratta del precetto sul quale si fonda la responsabilità anche contrattuale del datore di lavoro. Negli ultimi anni, proprio sulla base di questa riconduzione del fenomeno al più ampio concetto di tutela della salute del lavoratore, sono pertanto sorti molteplici contenziosi, finalizzati non più o non soltanto all’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro, ma anche alla richiesta della tutela indennitaria Inail quale malattia professionale.
La Cassazione e lo “straining”
Nel contesto lavorativo e giuridico italiano, il termine è stato adottato per indicare una situazione di pressione psicologica o stress sul lavoratore che produce effetti duraturi e negativi sulla salute o sull’ambiente di lavoro. Quindi, mentre in inglese, il termine, può riferirsi genericamente a uno sforzo fisico o mentale, in ambito giuslavoristico italiano ha assunto un significato tecnico legato alla responsabilità del datore di lavoro per ambienti lavorativi nocivi. La novità in materia è l’ordinanza della Cassazione n. 123/2025 in base alla quale si è stabilito che, anche in assenza di mobbing, il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile se permette il persistere di un ambiente stressante che danneggia la salute del lavoratore. Si tratta di un’ordinanza che segna un ulteriore avanzamento nella definizione della responsabilità datoriale rispetto ai conflitti lavorativi e alle condizioni stressogene. Pur escludendo la configurabilità del mobbing e dello straining in assenza di un intento persecutorio, la pronuncia chiarisce che il datore di lavoro può comunque rispondere ex art. 2087 c.c. se permette, anche colposamente, il mantenimento di un ambiente lavorativo nocivo e stressogeno. In particolare, la Cassazione riconosce la rilevanza giuridica dello stress derivante dalla conflittualità lavorativa, affermando l’importanza della tutela anche dei lavoratori più fragili: la maggiore vulnerabilità del dipendente accresce, anziché attenuare, gli obblighi datoriali di protezione.
Il motivo
Il caso nasce dall’azione in giudizio di una lavoratrice che chiedeva di accertare il mobbing asseritamente subìto nel contesto di una riorganizzazione della sua azienda. La Corte d’appello reputava che la scelta riorganizzativa dell’azienda che coinvolgeva la ricorrente non risultava irragionevole ed era, invece, stata adeguatamente motivata dal datore di lavoro, ma ha ritenuto, tuttavia, che la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio cui era addetta la ricorrente avrebbe imposto al datore di lavoro di adottare misure opportune per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, tra cui eventualmente il ricorso al potere disciplinare. ll datore di lavoro può essere, quindi, ritenuto responsabile di straining quale forma attenuata di mobbing per comportamenti stressogeni, e ciò anche in mancanza di una pluralità di azioni vessatorie, qualora si producano comunque effetti dannosi all’interessato.
Il contenzioso
Una sentenza che sostanzialmente condanna il datore di lavoro per non aver adottato misure disciplinari per sedare le divergenze nell’ambiente di lavoro, ma che ha portato anche all’effetto contrario. Il contenzioso legale che stiamo riscontrando successivo alla sentenza n. 123/2025, infatti, non si incentra ora solamente sulla legittimità dell’azione disciplinare in sé (quando e se adottata dal datore di lavoro), quanto sulla necessità per il datore di lavoro di difendersi dalla tesi avversa, in base alla quale la procedura adottata avrebbe generato un ambiente stressogeno tale da compromettere la salute psico-fisica del dipendente.
Contrordine
Con l’ordinanza del n. 14890 del 3 giugno 2025, la suprema Corte rimette a posto le cose e stabilendo, in caso analogo, che non vi fosse alcuna finalità stressogena scientemente attuata nei confronti dei lavoratori, in una riorganizzazione atta a migliorare la gestione dell’impresa e il raggiungimento di performance di vendita più consistenti, respingendo così le domande di risarcimento danni ed escludendo che la condotta della società potesse integrare gli estremi dello “straining” o del “mobbing”. Come sempre le valutazioni vanno, quindi, fatte caso per caso.